Questi primi giorni dell’anno ho riflettuto parecchio sul senso dell’ODG, sui giornalisti tradizionali e la presunzione dei “colleghi”
È arrivato quel momento dell’anno, quello in cui pagare all’Ordine dei Giornalisti la tassa annuale di iscrizione.
È con quella di quest’anno sono 1.080€, esattamente 100€ all’anno, tranne per gli ultimi 2 anni all’Ordine regionale della Toscana, che a differenza di quello pugliese me ne chiede 90€ all’anno, 10€ in meno.
Wow, che culo.
La tassa dell’Ordine coincide con l’inizio del nuovo anno, il periodo più fertile per i buoni proposito, ma direi, anche per le nuove o vecchie domande.
Una su tutte: “Che senso ha avere il tesserino da giornalista nel 2018 2019 2020 2021?”.
Perché l’Ordine mi chiede di pagare una tassa?
L’Ordine dei Giornalisti chiede annualmente ai suoi iscritti, pubblicisti o professionisti che siano, di pagare una cifra annuale che si aggira intorno alla cifra di cento di euro.
Il motivo sono i costi di gestione e mantenimento dei vari organi regionali e nazionali, la possibilità di attingere a un fondo per pagare cause legali attinenti alla professione di giornalista*, e ovviamente, tutti i servizi ai quali un giornalista può accedere.
Ma quali sono questi servizi?
Uno di questi è la piattaforma di formazione obbligatoria e continua per giornalisti. Sì, l’ordine impone formazione ai suoi iscritti vincolandola ad un numero di crediti da raggiungere ogni triennio.
Praticamente l’Ordine mi obbliga a fare un certo tipo di formazione e mi obbliga a pagarla. Inoltre, i corsi “migliori” (eufemismo) sono a pagamento, nonostante io abbia già pagato “per entrare” nella piattaforma.
È come se in un negozio venga chiesta una tassa per guardare i prodotti sugli scaffali, o peggio ancora, come se all’interno di un negozio mi venisse chiesto di pagare i campioncini gratuiti di prodotto. Ah, ovviamente non avete scelta libera se entrare o no nel negozio. È obbligatorio.
Una condizione borderline, che assume le sembianze di una conversazione parecchio imbarazzante, nel momento esatto in cui entri all’interno della piattaforma e scopri la qualità dei corsi al suo interno.
Due problemi della stessa medaglia
Uno dei due grandi problemi del giornalismo oggi è appunto l’Ordine, l’organismo che tutela, fa le regole e monitora questo mondo. Se è vero che non sono nessuno per giudicare i componenti dell’ODG, la sua storia e la valenza politica e sociale che ha avuto nel corso degli ultimi 70 anni (una grande valenza per lo sviluppo della professione in senso positivo ce l’ha avuta), è anche vero che da iscritto e pagante, qualcosa sulla qualità dei corsi mi sento di dirla.
Una sola: i corsi sono rimasti arenati ad un mondo e una cultura altamente superata.
Tutto ciò che ha una minima parvenza di attuale suona del tipo “Corso per imparare ad accendere il pc”, oppure, come anticipato, è raggiungibile previo ulteriore pagamento.
Quando si entra all’interno della piattaforma per la formazione obbligatoria dei giornalisti si ha l’impressione di essere tornati nel 2006 e non parlo di veste grafica (in quel caso bisognerebbe togliere il 2 all’inizio della cifra che indica l’anno).
Se l’Ordine ha diversi problemi irrisolti da parecchi anni, è anche vero che una grande percentuale dei suoi iscritti fa da specchio all’organizzazione di cui fanno-facciamo parte. L’altro problema del giornalismo di oggi infatti sono i giornalisti, i media, e i presunti giornalisti che mi dispiace dirlo, ma proprio l’Ordine ha permesso di proliferare.
I giornalisti hanno devastato questo paese (semi cit.)
Il casino nasce dagli step necessari per avviare la procedura di iscrizione all’albo dei giornalisti.
Oggi come ieri, se vuoi entrare nell’albo devi collaborare con una testata che sia registrata al Tribunale e realizzare un certo numero di articoli che cambia da regione a regione (o meglio, da ordine regionale a ordine regionale) che si attesta all’incirca sui 60-70 articoli nel biennio.
Gli articoli devono essere retribuiti, e qui scatta la prima scintilla che provocherà il blackout totale.
Ad oggi quasi nessuna testata, cartacea e online può permettersi di retribuire un aspirante che avvia la pratica per l’ingresso nell’Ordine.
In Italia si sa, se vuoi fare esperienza non vorrai mica essere pagato?
Io ti offro la possibilità di imparare a fare il lavoro (che in realtà a queste condizioni è un “ti disimparo a fare il lavoro”), ti offro la visibilità e la possibilità di prendere il tesserino (così potrai andare a giro a vantarti con la tipa/tipo che ti piace, entrare gratis al museo e fare foto da mettere sul tuo profilo Instagram con un pippone come didascalia e aggiungere una nuova voce al curriculum).
In sintesi, se vuoi prendere il tesserino ti devi sobbarcare anche la retribuzione degli articoli.
Questo meccanismo di lavoro gratis inoltre crea il mostro del lavoro fatto male, non mette nella condizione di avere il tempo per verificare le informazioni, con il tuo “datore di lavoro” che non pagandoti non se la sente nemmeno di romperti le scatole.
Insomma, si crea un micromondo privo di deontologia, termine tanto riempito di significato dall’ODG ma che poi l’Ordine stesso fa sgonfiare come un pallone.
Ma dicevamo dei giornalisti specchio dell’Ordine prima.
Certo, perché i giornalisti, quelli che questo mestiere hanno cominciato a farlo quando era ancora un mestiere asseribile alle ispirazioni di un giovane, si sono eretti su un piedistallo, sui primi gradini di un podio usato per cerimoniare gare che non esistono più.
Quando le ombre della prima crisi dei giornali era alle porte, e i social media stavano per entrare nella quotidianità delle persone, i vecchi giornalisti anziché anticipare il cambiamento e padroneggiare i nuovi mezzi per dare vita ad un’evoluzione della professione, dall’alto del non so cosa, hanno reagito con snobismo, tipico dello stereotipo di alcune professioni intellettuali, e hanno catalogato di Serie B strumenti che potevano e dovevano essere affiancati al taccuino tradizionale.
Anzi, hanno tutti ben pensato di imputare come colpevoli della crisi i social media, che fondamentalmente sono mezzi inanimati, guidati dalle persone.
Così abbiamo perso tutti una grande occasione e abbiamo lasciato spazio alle “nuove forme di giornalismo”, quella dei tanti siti web ormai numericamente impossibili da monitorare per l’Ordine, dato che una volta preso il tesserino, chiunque può aprire un sito e avviare una testata giornalistica a tutti gli effetti.
Ma vi ricordate il meccanismo dei ragazzini presi per prendere il tesserino, quelli che sono portati il più delle volte (non vale per tutti) a fare male il proprio lavoro, quelli sfruttati con l’idea del sogno americano dietro l’angolo?
Ecco, oggi sono ancora vivi più che mai e inconsapevolmente hanno dato da mangiare a degli ecomostri del giornalismo digitale.
Il bello è che in questa trappola ci sono caduti anche i big. Anche i grandi media che dal giornalismo tradizionale si sono trovati costretti a duplicare anche in versione digitale. Media che sono entrati quando le regole principali erano già state scritte, paradossalmente da quelli che prima erano i pesci piccoli secondo i vecchi giornalisti: le persone comuni e gli aspiranti, tutti insieme appassionatamente sui social.
Così i grandi media, per stare dietro a siti di notizie che vendevano sensazionalismo in nome del Dio clickbait, incapaci di comprendere la situazione e costruire una nuova strada, hanno semplicemente replicato in modo camaleontico le regole che hanno trovato al loro arrivo, moltiplicando in maniera esponenziale il disagio informativo.
In tutto ciò le persone che per forza di cose leggono meno (sul cartaceo) e assumono nuove abitudini e brutti vizi (del digitale).
Per riassumere l’atteggiamento di chi ci ha consegnato al nemico, o meglio, chi non si è saputo reinventare e tendere la mano alle persone, cose che i giornalisti dovevano fare da tempo, riporto qui un piccolo spaccato preso dal libro Media House edito da Dario Flaccovio Editore, testo che parla della nuova evoluzione digitale, ma tocca anche le tematiche del giornalismo e della comunicazione tradizionale.
È un libro che NON consiglio di comprare semplicemente perché ci sono anche io tra i co-autori e questa non vuole essere una marchetta.
Fa esattamente così.
Durante una delle presentazioni del mio libro, dibattendo sull’evoluzione dell’informazione, uno dei giornalisti che ho invitato, rivolgendosi a un ragazzo seduto in platea, cercando di non apparire scortese o presuntuoso, ha evidenziato con forza il suo ruolo:
“È vero che, oggi, sui social tutti possono controbattere a ciò che scrivono i giornalisti. Ma, perdonami se lo sottolineo, io e te non siamo uguali”.
A conferma delle modalità con cui, la categoria, si pone sui social media, sottolineando come, in quegli spazi, propongano le loro considerazioni personali, a prescindere dall’oggettività che invece, si suppone, dovrebbero mettere nei contenuti prodotti per lavoro.
“Qui solo opinioni personali”.
Quante volte, Su Twitter, ho letto questa frase nella bio di un giornalista, o sedicente tale. Eppure, mettere insieme il primo virgolettato a questo, vale più o meno a dire: “Sono qui per esprimere le mie opinioni, che sono soggettive, quindi qu sono me stesso e non il professionista che scrive sul giornale, ma ciò che penso io vale più di ciò che pensate voi”.
Una follia.
Quella di chi vive nella presunzione che un tesserino permetta di appartenere a una sorta di casta di qualità di pensiero certificata, ma soprattutto, quella di chi non ha capito oche il mondo è cambiato.
Così si conclude il pezzo del libro che mi piaceva segnalare e che condivido in ogni singolo passaggio.
E allora perché sono ancora iscritto all’albo?
Perché sono obbligato, dato che sono il direttore responsabile di un magazine che parla solo di social media (guarda un po’), ma non mi sento ormai da tempo rappresentato dal mio Ordine di appartenenza.
Mi scusi Presidente, ma io non mi sento giornalista come lo definite voi, ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Vi ricordate dell’asterisco sul fondo predisposto per pagare le cause ai giornalisti * e fin qui tutto fantastico, ma su questo punto andrebbe fatta una riflessione a parte. Riflessione che diventerebbe frustrante a leggere le modalità di accesso a queste misure che io chiamo impropriamente fondi di soccorso per giornalisti, senza considerare le condizioni necessarie per attingerci.
Cover Photo Credit: lanotiziapontina.it