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Due-tre cose che ho imparato sui social

Non si parla di algoritmo oppure dell’orario ideale di pubblicazione. Queste cose le lascio a quelli più bravi di me sui social

  • La community è più importante dell’idea stessa (o del brand).

Che poi per accorgersene e magari anticipare il trend, bastava pensare al primo Facebook. Quando la piattaforma ha creato la possibilità di creare gruppi monotematici o di creare i famosi “link” che oggi ci imbarazzano quando ci vengono riproposti dal social come ricordi, cose del tipo “Quelli che la mattina non si svegliano senza una bella tazza di caffè” o “Quelli che sanno a memoria una canzone ma non ricordano cosa hanno mangiato a pranzo”.

Dai, ci siamo cascati tutti, ma non è questo il punto.

Prendete gruppi come “Mimmo Modem”, “SDP”, “Welcome to Favelas” ma anche altri casi più politicamente corretti. Almeno in Italia, è da questi gruppi che molte altre pagine hanno “rubato” l’idea di pubblicare i contenuti creati dagli utenti sulla pagina, una sorta di user generated content senza sapere come si chiamassero e cosa fossero.

Gli user generated content (UGC), così li chiamano gli inglesi (e sempre quei famosi colleghi bravi), non caricati sui social dell’utente che li ha creati, ma postati direttamente nella community della pagina, ci spiegano 3 cose che se un community manager riesce ad innescare, avrà il successo della pagina garantito.

Gli utenti pubblicano contenuti in linea con la community per: ricevere approvazione e like (dopamina a palla, il motivo per cui i social sono come una droga), conquista di uno status verificabile all’interno della community (la gamification, sistema di engagement tanto utilizzato dai grandi brand, si regge su quest’idea d’altronde) e per avere un luogo dove essere se stessi (un po’ come l’avatar che si muove all’interno di Fortnite e altri mondi digitali per gli adolescenti).

Se attivate queste leve, non importerà tanto la percezione del brand o la sua storia all’interno del mercato.

Tutto sarà reso più facile dagli utenti, i vostri inaspettati ambassador e produttori di contenuti.

  • Il brand è più importante della community.

Quindi prendete quanto detto prima, accartocciate tutto e cercate di fare canestro nel cestino.

In realtà questo è un concetto in cui si possono rivedere i grandissimi brand (forse quei pochi che davvero possono meritarsi l’appellativo di brand), o i marchi tradizionali presenti sul mercato da tanti decenni.

Non sto dicendo che Coca Cola o Barilla non abbiano bisogno di un rapporto con la propria community, ma più che altro di marchi che trasferiscono uno status all’utente che acquista o consuma quel prodotto (negli ultimi anni Supreme o Apple per capirci con qualche esempio).

Abbiamo capito insomma che lo status dell’utente è davvero qualcosa di importante.

Ecco, se il brand è talmente forte e riconoscibile da essere desiderato da una persone per permettergli di dichiarare al mondo il proprio modo di essere e di vivere la vita, beh, dovrà sicuramente preoccuparsi meno di gaffe o di ideare contenuti cuciti su misura de cliente (sì lo so, state storcendo il naso ma obiettate solo con argomentazioni forti per dimostrare il contrario).  

Non è un caso se la gestione dei social, l’analisi della community e le campagne virali siano praticamente essenziali per marchi giovani come Netflix, brand che nascono di “recente” e che hanno acquisito il mercato proprio perché hanno ammazzato i predecessori.

La percezione dell’utente vale più dell’utente, finché qualcuno non vi spodesterà dal trono, ma se riuscite a diventare Sony, Apple, o Ferrari, avrete vita lunga.  

  • Rubare ti rende migliore, copiare no.

Tra i reati commessi nei miei 29 anni rientra sicuramente il furto di contenuti. E chi dice il contrario, oltre a essere un ladro come me, pecca anche di onestà.

Diceva un tale, credo Spielberg ma non ricordo bene, che un regista è la somma di altri registi. D’altronde senza Verrocchio non ci sarebbe stato un Leonardo da Vinci.

Questo per dire che tutti traiamo ispirazione da quelli che ci piacciono, riteniamo bravi o simili a noi. Ognuno si rivede in uno stile che in qualche modo racconta la propria idea del mondo, ed è giusto diventare riproduttori di quello stile aggiungendo un pezzo del nostro vissuto. La creatività degli altri, unita alla nostra, creano un pezzo totalmente nuovo. Per questo non parliamo di copiatura ma arte che insegue altra arte e racconta una nuova storia.

Se la pensate così, allora non state copiando, ma aggiungendo un pezzo unico.

Se invece state copiando, cambiate mestiere e lasciate i social dove tra l’altro questo atteggiamento non fatica ad essere scoperto e punito dall’oscuro mondo del web (vedi Superuovo).

Tranquilli poi, i social stanno vivendo un periodo storico di produzione di contenuti immensa, sarebbe quindi impossibile non riprendere qualcosa vista altrove, anche inconsciamente.


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  • Leggere i commenti sotto ai post è formazione gratuita.

Se avete una rivista o una pagina che parla di attualità, dai commenti potete apprendere cosa interessa alla gente. E qui vi dico anche la cosa sporca: leggendo i commenti potete capire anche cosa piace di più e quindi indirizzare alcuni vostri contenuti verso quel pubblico, se è vostro interesse ingaggiarlo e attrarlo verso la vostra community.

I commenti però sono anche grande fonte di informazioni provenienti da utenti super esperti e appassionati su alcune tematiche.

Se siete a corto di idee, molti spunti possono nascere dalla lettura dei commenti.

  • Le storie sono l’unico contenuto di cui non saremo mai saturi.

Raccontiamo storie per vivere e sopravvivere (come fatto da Shahrazād per non soccombere all’ira del re persiano Shahriyār).

Ci sarà sempre il tempo per una buona storia e ci sarà sempre una buona storia che si crea nel tempo.

I social non demoliranno questa nostra esigenza, anzi, bisogna dire che la amplificano e ci permettono di far arrivare le storie in ogni parte del mondo.

I social nascono come piattaforme per restare in contatto con gli altri e diventano piattaforme per conoscere le facce e le storie degli altri.

Non dimentichiamolo mai.

  • Se non vendi hai più probabilità di vendere.

Un fattore che si collega al punto precedente. Se c’è un motivo per cui siamo sui social non è certamente per comprare, ma cazzeggiare e farsi i fatti degli altri.

Se il tuo progetto prevede la vendita per assicurarsi la sopravvivenza economica, allora devi raccontare delle storie o fare storytelling (la tua comunicazione mossa attraverso la narrazione) e far diventare appetibile il tuo prodotto.

Infatti si parla di inbound marketing sui social e sul web. Una tipologia di attività che diventa utile a chi deve vendere per forza, e per questo i social vengono in soccorso.

Mentre urlare sui social e proporre con frenesia il prodotto, non servirà a niente.

Per capirci meglio, prendiamo l’esempio di Netflix. Questo brand prospera se gli utenti acquistano e pagano gli abbonamenti mensili, quindi deve vendere qualcosa per vivere senza ombra di dubbio. Ora prendete i social di Netflix, studiateli e scrutateli. Fate attenzione a quante volte ti urlano o ti suggeriscono di fare l’abbonamento. Dopo settimane di attento studio conoscerete il segreto. Saprete esattamente cosa vuol dire non vendere per aumentare la probabilità di vendita.

  • I social sono un modo nuovo di fare cose vecchie.

È una mezza citazione del sociologo spagnolo Manuel Castells studiato ai tempi della triennale di comunicazione, media e giornalismo.

Castells dice che Internet è un modo nuovo per fare cose vecchie e in gran parte ha ragione se ci pensate. Prima andavamo in agenzia di viaggi per comprare un biglietto aereo, oggi lo facciamo su internet ma la sostanza è quella.

Cambia la forma non la formula.

Sui social invece, è sicuramente una traslazione meno efficace ma c’è da dire che molte reazioni e molti gesti comunicativi che compiamo nella vita reale, sono uguali a quelli che possiamo compiere attraverso la nostra identità digitale.

Ad esempio, se offro anziché chiedere sempre, ricevo. Se chiedo sempre, ala lunga non ricevo più nulla.

Avviene proprio questo anche nella vita reale, a meno che voi non siate addentrati in un circolo vizioso di persone e contesti social(i) o facciate i politici di mestiere.

Se lavorate sodo sui social, alla fine qualcuno vi scoprirà e valorizzerà il vostro lavoro. Se ostentate bravura e lavorate solo sulla percezione, qualcuno ci cascherà ma alla fine vi sgameranno, e l’effetto demonizzante sarà simile a quello della vita offline.

Castells è un grande, e se dopo anni ho dimenticato tutto il contenuto studiato sui suoi libri, ma mi è rimasta impressa la frase iniziale di un suo testo, senza che sbiadisse nel mio ippocampo, un motivo ci sarà.

  • I social sono belli ma poi muoiono.

I social domani cambiano l’algoritmo e così tocca ristudiare tutto.

I social oggi regalano, e domani chiedono soldi per garantirci reach.

I social ci chiederanno sempre qualcosa.

I social sono un mezzo di comunicazione di massa, con pregi e pecche.

Se domani Zuckerberg decide di chiudere tutto, saremo senza identità digitale e tutto il lavoro di produzione di contenuti finirà nel cesso, a meno che non lo abbiate portato avanti anche sul vostro sito internet.  


Ah, negli anni ho imparato anche a non utilizzare immagini del profilo di cui poi me ne sarei vergognato anni dopo, vedi cover articolo.

Luigi Di Maso

Sono la somma delle 5 persone che frequento di più, il prodotto delle reazioni ad alcuni episodi importanti che hanno influenzato la mia vita e il riflesso culturale di quello che ho letto negli ultimi anni. Ma anche un pugliese da 8 anni a Firenze, classe 1991. Digital Media Editor per lo Sport, soprattutto il calcio.

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